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Le ambigue promesse della robotica antropomorfa

 

In questi ultimi tempi, c’è un argomento che più di ogni altro sembra essere salito alla ribalta della diffusione mondiale delle notizie: i robot e le previsioni di un loro utilizzo su larga scala a breve termine. In ogni consesso scientifico o puramente divulgativo vengono espressi sentimenti di speranza e di acclamazione per questa ormai imminente svolta tecnologica, che sembra aver assunto le dimensioni di un fenomeno di massa, promettendo felicità e benessere, superamento delle difficoltà più angoscianti della vita umana e un miglioramento generale delle condizioni quotidiane.

Appare però necessario definire meglio il termine “robot“. Un robot è una macchina programmabile in grado di eseguire automaticamente una serie complessa di azioni. La mia lavastoviglie è un “robot” e non potrei farne più a meno, così come lo sono le moderne lavatrici o la cassa automatica del supermercato. Robot di categorie più complesse sono presenti nelle catene di montaggio degli autoveicoli o nei sistemi di guida dei velivoli, mentre i più sofisticati si possono trovare nelle sale operatorie di ospedali particolarmente tecnologici.

Queste categorie di robot sono state pensate e progettate per liberare l’essere umano da operazioni pesanti o ripetitive, oppure per eseguirne altre con maggiore precisione, velocità e affidabilità, restituendo all’uomo “più tempo per la sua creatività” (questo l’accattivante messaggio pubblicitario). Eppure, la maggiore velocità con cui vengono realizzate le automobili non si è tradotta in un beneficio di vita per il consumatore, ma solo in un incessante aumento di produttività – e quindi di esigenze di vendite – che hanno portato a incrementare un consumismo sfrenato nel settore. Se da un lato la presenza della tecnologia degli automi nelle sale operatorie ha garantito interventi più precisi e rapidi, dall’altro non ha portato a un miglioramento del rapporto tra medico e paziente (recuperando il tempo guadagnato) ma solo a trasformare gli ospedali in tristi magazzini di riparazioni umane che sottopongono i medici ad estenuanti giornate di “produttività” in sala operatoria.

Risulta comunque evidente che queste tipologie di robot faranno inevitabilmente sempre più parte del nostro futuro e della nostra quotidianità. Il problema sarà quello di valutarne gli impatti sociali e personali, oltre che considerarne le ripercussioni etiche. Quanto l’uomo dovrà (o potrà) modificare il proprio ambiente per accogliere queste nuove realizzazioni? Al momento, non vediamo ancora un dibattito serio su queste argomentazioni, senza il quale si rischia di non essere in grado di affrontare le novità con la necessaria lucidità.

In ogni caso, non è di queste categorie di robot che i media internazionali si stanno incessantemente occupando, ma di un’altra – più drammatica – minaccia: i robot antropomorfi o androidi. Sembra che l’industria dell’automazione e la ricerca sull’Intelligenza Artificiale abbiano collimato i loro obiettivi verso la realizzazione di robot dalle sembianze umane, atti agli scopi più vari. Ne abbiamo parlato già alcuni mesi fa nel nostro articolo “Il futuro avrà ancora bisogno dell’uomo?” tuttavia sembra opportuno ritornare sull’argomento evidenziandone ulteriori aspetti sconcertanti.

Cosa spinge l’essere umano, dopo millenni di evoluzione, a voler creare una replica sintetica di se stesso? Perché è così affascinato da questa idea? Probabilmente perché cerca di realizzare nell’automa il desiderio di un essere tecnicamente perfetto con abilità super-sensoriali non concesse all’uomo, oppure per nascondere il coronamento di un peccato di hybris: la potenzialità creatrice del divino. Esiste davvero l’esigenza – qualora fosse possibile – di dover realizzare sinteticamente una nuova specie da aggiungere a quella già così numerosa degli essere umani?

La sfida più grande che appare esaltare la ricerca – e che fortunatamente per il momento risulta molto ardua se non impossibile – è quella di dotare il robot di coscienza attraverso l’evoluzione degli studi sull’Intelligenza Artificiale. A tal proposito, il fisico Roger Penrose afferma che un computer è capace soltanto di un ragionamento algoritmico (basato su sequenze logiche), mentre il cervello umano è aperto all’improvvisazione e all’inatteso, al caotico, vale a dire, è creativo. La mente umana, in altri termini, è molto più del suo cervello e delle sue connessioni neurali.

Eppure gli investimenti che l’industria internazionale sta ponendo in essere in questa materia sono stratosferici. Come riportato nell’articolo citato, la sconcertante dichiarazione di missione della Hanson Robotics – una società di Richardson (Texas) fondata da David Hanson nel 2003 – è la seguente: “La nostra missione a lungo termine è di migliorare notevolmente la vita quotidiana delle persone con robot a prezzi accessibili, molto intelligenti che insegnano, servono, intrattengono, e siano in grado di sviluppare un rapporto profondo con la gente. Con il tempo, ci auguriamo che i nostri robot intelligenti possano veramente capire e curare le persone e raggiungere una saggezza ancor più grande di quella umana, fino al punto che essi un giorno saranno in grado di dedicarsi e risolvere alcuni dei problemi più difficili che dobbiamo affrontare“.

La notizia che un gruppo di aziende sta cercando di mettere a punto un robot “di compagnia” per gli anziani (“Addio solitudine con il badante robot“) sembra indicare con chiarezza la pericolosa deriva che questo fenomeno porta con sé. Si spera di risolvere con una macchina antropomorfa l’angoscia e la solitudine creata da una società che emargina e che sempre più mina alla dignità dell’essere umano. E ancor più sconcertante è la promessa (forse meglio, la minaccia) di realizzare a breve un automa-babysitter per tenere compagnia ai bambini.

Ci si chiede quale sia la posizione della Comunità Europea nei confronti di un problema certamente fondamentale per le conseguenze etiche e sociali verso le quali potrebbe facilmente degenerare. Tuttavia – pur dimostrando di non ignorare la questione – il Parlamento Europeo si è limitato a discutere una proposta per riconoscere uno stato legale ai robot, categorizzandoli come persone elettroniche, sottolineando con vigore la necessità di introdurre una nuova legislazione focalizzata su come le macchine possano essere considerate legalmente responsabili per le loro azioni e omissioni. Per gli aspetti legati al lavoro e al reddito, rimandiamo all’articolo “L’utopia del reddito senza impiego: un esperimento mentale“.

Il filosofo Gunther Anders, nella sua opera “L’uomo è antiquato“, ha scritto: “Prometeo ha riportato una vittoria troppo trionfale, tanto trionfale che ora, messo a confronto con la sua opera, comincia a deporre l’orgoglio che gli era tanto naturale nel secolo passato e inizia a sostituirlo con il senso della propria inferiorità e meschinità. Chi sono io mai – domanda il Prometeo del giorno d’oggi, il nano di corte del proprio parco macchine, – chi sono io mai?“. La “vergogna prometeica” (come la chiama Anders nell’opera citata) è dunque un disagio radicale per la propria condizione umana, per il fatto cioè di trovarsi in un mondo imperfetto, non calcolato e progettato fin nei minimi dettagli come invece una qualsiasi delle macchine che usiamo, persino la più semplice.

In una recente intervista al Financial Times, Luciano Floridi – docente di Etica delle Informazioni all’Università di Oxford – ha dichiarato: “In ultima analisi, il problema non è nelle macchine intelligenti, ma negli esseri umani“. Questo è vero, gli esseri umani, nella loro eccezionale complessità, portano con sé innumerevoli problemi nella loro finitezza e fragilità. Dunque, la soluzione sarebbe sostituirli con una nuova specie sintetica? Se la badante del nonno presenta o ci crea problemi, la rimpiazzo con il robot!

Lo scienziato Stephen Hawking ha da sempre sostenuto che “lo sviluppo di una piena intelligenza artificiale potrebbe significare la fine della razza umana”. Detto nei termini di Gunther Anders: “Dato che contiamo meno bene della nostra macchina, non si può far conto su di noi; dunque noi non ‘contiamo’“.

 

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